Brundisium longae finis chartaeque, viaque.
Brindisi è termine alla lunga satira e al viaggio.
L’Appia, regina viarum, si iniziò a costruire il 312 a.C., per volere del censore Appio Claudio Cieco, per raggiungere, sul declinare del III secolo a.C., attraverso Benevento e Taranto, il porto di Brindisi da cui, imbarcandosi per Valona o Durazzo, il viaggio verso oriente poteva proseguire per terra attraverso l’Egnazia. La Via Appia Traiana, sul preesistente tracciato descritto da Orazio, avrebbe poi collegato, con percorso alternativo, Benevento a Brindisi attraverso Canosa ed Egnazia.
L’eccellenza del porto di Brindisi e la sua posizione che consentiva il controllo dell’Adriatico, sia dal punto di vista commerciale che da quello navale, sembrano aver attratto presto l’attenzione dei romani; proprio il suo possesso è probabile sia stato il motivo principale che li ha spinti alla conquista del Salento.
La regina viarum si avvicinava alla città sul percorso dell’attuale via Cappuccini incrociando la Traiana all’altezza dell’attuale intersezione con via Osanna. Il viandante, approssimandosi alle mura urbiche, di cui ampi tratti sono a vista su via Camassa, avrebbe scorto estese necropoli in cui era la memoria di chi, come il filosofo epicureo Eukratida, originario di Rodi, si era reso benemerito verso la città.
Fiancheggiando l’anfiteatro, in cui il protovescovo san Leucio avrebbe battezzato i brindisini ancora pagani, i viaggiatori entravano in città dalla porta occidentale, terminale del decumano cui si sarebbe sovrapposta l’odierna via Tarantini. Attraversando questa porta Cicerone, incerto sulla sua sorte, andò incontro a Cesare che gli avrebbe fatto grazia dei suoi trascorsi con Pompeo.
Sui pianori di ponente, è ancora ben leggibile l’impianto stradale romano; sul decumano di via Santabarbara – Tarantini intersecavano i cardini su cui oggi sono le vie Lauro, Marco Pacuvio e Duomo. Un intero quartiere è ben visibile e visitabile nell’area di San Pietro degli Schiavoni; lì, con ogni probabilità Antonio e Ottaviano stipularono la pace di Brindisi che Virgilio, nella sua IV ecloga, avrebbe celebrato come annunzio di una nuova era.
La città attuale si sviluppa su quella antica; resti ben conservati di domus romane sono nella chiesa del Santo Sepolcro, memoria di Terra Santa e palazzo Granafei. Sparsi ai margini delle strade s’incontrano rocchi di colonne, macine, capitelli; inseriti o ammurati su seriori edifici sono puttini e busti: l’antico, si direbbe, reinterpretato e reinserito come elemento del nuovo che su esso e per esso si costruisce.
Il grande foro, che era ove oggi è piazza Mercato, aveva carattere monumentale; qui Aulo Gellio ebbe animata discussione con uno sciagurato lettore dell’Eneide di Virgilio. Nel museo Ribezzo, vero gate d’ingresso alla storia cittadina, sono molti reperti, in particolare statuaria, rinvenienti da quell’area.
Magnifici erano gli orti nei dintorni della città; in uno di questi era la dimora di Marco Lenio Flacco in cui fu ospite Cicerone che al suo rientro in Italia ricordava: “Chi ignora quale sia stato il mio ritorno? Furono i Brindisini che al mio arrivo mi porsero l’amica destra come se fosse stata quella di tutta Italia e della patria (…) allorché la medesima casa di Lenio Flacco, di suo padre e di suo fratello, uomini ottimi e dottissimi, mi accolse con grande letizia; quella stessa casa che nell’anno precedente mi aveva ricevuto piangente e mi aveva, con la sua protezione, difeso dal pericolo».
A vantaggio delle colture non mancava l’acqua data la presenza di non poche sorgenti una delle quali alimentava il Fonte Grande nel tratto terminale della Traiana; viaggiatori e cittadini potevano contare su regolari approvvigionamenti idrici garantiti dall’acquedotto di cui imponenti resti permangono presso porta Mesagne.
Nelle tabernae sparse per la città, in una delle quali Marguerite Yourcenar colloca l’incontro fra l’imperatore Adriano e il fido Attiano, si poteva bere ottimo vino; con i containers del mondo antico, le anfore che si producevano in gran numero a Làpani e Giancola, era esportato in tutto il Mediterraneo a vantaggio anche di re come Erode il Grande.
Per imbarcarsi, dopo aver gustato le ostriche “dalle lunghe ciglia” celebrate da Plinio e il sarago di cui tessero grandi lodi Ennio e Apuleio, percorrendo il decumano sull’asse di via Tarantini, si doveva piegare verso il tratto di lungomare oggi denominato Lenio Flacco; qui, passando fra le grida dei venditori di fichi di Cauno ricordati da Cicerone e i banchi di vendita colmi di libri, di cui Aulo Gellio fece incetta, da aprile sino ad autunno inoltrato si sarebbe trovato un passaggio su una nave diretta verso il Levante. In questo sperava Spartaco diretto a Brindisi verso la libertà.
Lucano descrisse con ammirazione il porto e la città in cui Pompeo, come duemila anni dopo avrebbe fatto Vittorio Emanuele III, cerca scampo fuggendo da Roma:
“Un angusto tratto di terra dell’Italia, che ormai si restringe, spinge nel mare quella tenue lingua, che racchiude le onde dell’Adriatico come fra corna ricurve. Tuttavia in questa gola così stretta, in cui s’insinua il mare, non potrebbe esserci un porto, se un’isola non facesse scaricare sui suoi scogli la violenza dei marosi e non respingesse le onde stanche. Da una parte e dall’altra la natura ha posto di fronte al mare aperto monti rocciosi e ha tenuto lontani i venti, in modo che le imbarcazioni potessero rimanere all’attracco, assicurate da una fune anche debole. All’esterno si estende per largo tratto la superficie del mare, sia che si faccia vela verso i tuoi porti, o Corcìra, sia che ci si diriga a sinistra verso l’illirica Epidamno, che si tende in avanti sui flutti dello Ionio. Questo è il rifugio dei naviganti, quando l’Adriatico sprigiona tutta la sua violenza e i Ceràuni s’immergono nelle nubi e la calabra Sasòna è sommersa dai flutti spumeggianti”.
Virgilio, cui gli umanisti resero fisica presenza identificando come sua dimora una casa sul promontorio delle Colonne, qui trascorse gli ultimi giorni della sua vita. Il grammatico Donato riferisce che, vicino a morire, chiese insistentemente gli scrigni in cui era l’Eneide: voleva bruciarla egli stesso ma nessuno glieli portò e, solo con l’autorità di Augusto, Vario poté pubblicarla.
Nell’antichità l’Appia è stata un originale modello di collegamento viario capace di unire Roma a luoghi lontani. Più di 2300 anni dopo l’Appia può diventare per Roma, Brindisi e il mezzogiorno, il raccordo capace di congiungere i valori archeologici, paesaggistici, culturali e ambientali e di svolgere una moderna funzione di elemento regolatore delle aree urbane e dei sistemi territoriali attraversati. Cominciare a ragionare di un itinerario Appia Antica – che valorizzi l’esistente, lo renda più accessibile e fruibile, lo liberi dai mali che lo soffocano a partire dall’abusivismo edilizio – può essere il miglior viatico per inaugurare un museo esteso dove il percorso espositivo possa allargare il suo spazio fisico e conquistare nuovi spazi e un’idea nuova di uso del territorio e dei beni comuni.