Nel museo, forma della realtà in cui la memoria vive oltre se stessa, il passato si impone all’attenzione e si manifesta al ricordo. È esclusivamente nel museo che gli Dei – simboli gloriosi e patetici di secoli lontani – possono interrompere l’esilio cui li ha condannati il semplice invecchiare del mondo. I luoghi della memoria, in cui è custodito ed esposto quanto simboleggia e rappresenta la nostra cultura e la nostra storia, tendono a essere intesi non più come spazi chiusi, deputati alla conservazione, ma come metafora sociale e come mezzo tramite cui la società rappresenta il suo rapporto con la propria storia e quella di altre culture.
Nel Museo Provinciale “Francesco Ribezzo”, attivo dal 1954, sono confluite inizialmente le più significative raccolte antiquarie cittadine con arricchimento progressivo dei materiali espositivi grazie a donazioni di privati e a intese con enti pubblici e privati. Il 19 aprile 2009, dopo una chiusura per ristrutturazioni di oltre due anni, il museo è stato riaperto alla pubblica fruizione completamente ridefinito.
In esso è la memoria delle culture che si sono confrontate col territorio su un arco temporale che va dai primi insediamenti del paleolitico attestati sull’area di Torre Testa ai grandi complessi di età normanna come Sant’Andrea dell’Isola.
La dimensione mediterranea della città, porta aperta sul mare, trova riscontro nelle raccolte epigrafiche con testi latini, greci, ebraici e riferimenti a mercanti e viaggiatori di varia origine e provenienza. Con gli uomini viaggiavano idee e merci; la ricostruzione di una nave oneraria col suo carico di anfore, di cui Brindisi era grande centro produttore, traduce visivamente funzione e ruolo della città.
Il museo riveste grande importanza per tutti gli appassionati di archeologia subacquea, in quanto conserva al suo interno i bronzi di Punta del Serrone: si tratta delle splendide statue di un togato e di Lucio Emilio Paolo, il vincitore della battaglia di Pidna del 168 a.C. , più altre decine di reperti bronzei recuperati in circostanze fortuite sin dal 1972 e poi nel corso di una campagna di scavo condotta nelle acque brindisine nel 1992. Tutti i bronzi, “inquadrabili tra l’età ellenistica e il III sec. d.C.” provenivano evidentemente dal carico di una nave ed erano probabilmente destinati a qualche fonderia; una tempesta sorprese l’imbarcazione, affondandola o costringendola a liberarsi del pesante carico.
Portico de’ Cateniano
Scriveva Pietro della Valle, a proposito della città di Isfahan, che la piazza maggiore di quella città, era caratterizzata da “portici grandi e pieni sotto di botteghe con diverse mercanzie disposte per ordine a luogo a luogo; e sopra, con balconi e finestre, con mille ornamentini molto vaghi”. Questa descrizione illustra con efficacia la funzione dei portici urbani, raccordi tra edifici e strada in continuità con lo spazio urbano di cui sono estensione e parte, in questo caso piazza Duomo,. Nel portico e in ogni sua singola campata ogni edificio tende a connotarsi come luogo d’incontro, scambio commerciale, deposito di merci, rivestendo un suo ruolo nella definizione del pubblico decoro. Nel portico dei De’ Cateniano si ripete l’apparente contraddizione delle “… colonne poste a reggere arcate”, quella confusione muro-colonna segnalata da Leon Battista Alberti che nella città storica si confronta direttamente coi diversi sensi iconografici legati alla costante dialettica tra i due elementi. A questo elemento centrale di piazza Duomo può ben riferirsi quanto scriveva Francesco Milizia sulla funzione dell’architettura che, poiché “fondata sul necessario segue chiaramente [… ]: che tutto il suo bello prenda carattere dalla necessità stessa [… ] che gli ornati hanno da derivare dalla natura stessa dell’edificio e risultare dal suo bisogno [… ], niente perciò è da vedersi in una fabbrica che non abbia il suo ufficio e che non sia parte integrante della fabbrica stessa”.
Nell’edificazione del portico non mancò l’utilizzo di materiali di reimpiego; il 10 maggio 1880 Giovanni Tarantini riscoprì, a distanza di un secolo da Annibale De Leo, l’iscrizione di Clodio Eutiche, edita dal Mommsen (CIL, IX, 265) sulla base dell’apografo dell’arcivescovo, “incisa in un cippo sepolcrale di marmo, il quale in tempo assai rimoto fu messo come pietra di costruzione a qualche altezza in un muro di questo orfanotrofio di Santa Chiara […] e propriamente in quella parte che serviva da ospedale civico”. L’arcidiacono la vide dunque, non in capucinorum monasterio, come riferito dal Mommsen, ma dov’è tuttora, ossia inserita nel portico che fu del palazzo dei Cateniano,”in area et planicie archiepiscopalis maioris ecclesi(a)e”,
donato da Lucio, sindaco nel 1551-2 e nel 1555-6, all’ospedale dei poveri della città. Questo si sarebbe ingrandito, sul declinare del XVIII secolo, con la donazione, da parte di Francesco Amorea Latamo, del proprio palazzo. L’intero complesso dell’ospedale, danneggiato dai bombardanti alleati nella notte fra il 7 e I’8 novembre 1941, fu demolito il 1948 per dar luogo all’edificio che attualmente ospita il museo provinciale; unico brano superstite è il portico di casa Cateniano che può indicativamente datarsi al XIV secolo.